Il memoriale di Aldo Moro
La Costituente, De Gasperi e l'espulsione
del PCI dalla maggioranza.
Comm. Moro, 142-143 - 1978; Comm. stragi, II 244-249 - 1990
Questo trentennio è caratterizzato da un moto che tende a volgere verso il ritorno ad una posizione di partenza. Si tratta di una tendenza, nient'altro. Di un certo modo d'essere delle cose. Di analogie che non possono sfuggire. Per esempio, come non riscontrare obiettivamente e psicologicamente intorno al '45 un'emergenza non dissimile da quella della quale si parla tanto in questo momento? Ma, ripeto, si tratta di simiglianze, non d'identità. E tuttavia son sempre cose significative e da tenere in conto nella ricostruzione degli avvenimenti.
Si discute con molta finezza, se l'esclusione di comunisti e socialisti dal Governo sia stata una scelta autonoma italiana (difficoltà di collaborazione intergovernativa) o se sia stata influenzata da fattori esterni. Già in uno scritto di qualche tempo fa, in un riferimento occasionale, ebbi ad immaginare operante una influenza esterna.
Tuttavia difficoltà erano in entrambi i settori, ma la crescente divisione in sfere d'influenza, le disastrose condizioni dell'economia italiana, la necessità di aiuti lasciano immaginare, in un certo quadro internazionale, che un diverso assetto governativo potesse risultare utile nell'immediato alla situazione.
V'è chi fa riferimento al viaggio di De Gasperi a Washington, ma io ero troppo giovane, inesperto ed estraneo alle cose, per dire perché esso fu fatto e con quali conseguenze. Ricordo solo la mia trepidazione, anche perché, forse, troppo giovane, alla prospettiva di mutamento del quadro politico, tanto più che il quotidiano e disteso contatto in seno alla prima sottocommissione per la Costituzione (tra gli altri Togliatti, Basso, La Pira, Dossetti), mutando presumibilmente la condizione da una in un'altra, dava la sensazione della vastità dell'operazione politica che De Gasperi aveva deciso di compiere e per la quale aveva l'assenso di molti e importanti.
Io ne ero, francamente, sbigottito ed anche preoccupato per quanti avrebbero potuto esservi coinvolti. Tanto che ne parlai con l'amico Grassi, che mi stimava malgrado la assai maggiore anzianità e che era stato chiamato alla carica di Guardasigilli. Gli dissi sinceramente le mie esitazioni, per il paese soprattutto, per il dissesto che minacciava di derivarne. Ma la cosa era ormai avanti. Io - cosa di nessun rilievo data la mia giovane età - mi astenni nella votazione. Ma mi rimase il senso di una cosa grossa che veniva e che avrebbe pesato nel corso del tempo.
Continuava frattanto, intatta, la collaborazione in sede di Costituente specie sul piano personale e Togliatti dava l'impressione di registrare un incidente, che egli forse comprendeva nelle sue profonde ragioni, ma che non doveva sembrargli irreversibile. Anche fuori dei rapporti più stretti della Commissione, maturavano le intese per l'art. 7.
Cominciò cosi una lunga storia che non è possibile in questo momento esaminare in dettaglio. Voglio ricordarne un punto, perché si lega un po' a questi dei quali si è sin qui parlato. Intendo dire, scavalcando il 18 aprile e la successiva legislatura, la vicenda della legge maggioritaria che dette luogo ad un penosissimo quanto inutile sforzo della D.C. e di altri Partiti (benché sotto la guida di un capo quale De Gasperi) per far passare un premio di maggioranza, che rassomigliava forse a quelli in vigore in altri Paesi, ma nel contesto della situazione italiana e dopo quello che era avvenuto, aveva l'aria di voler eternizzare quel che era stato consumato e che trovava ancora, malgrado l'indirizzo di fondo, perplessità e critiche che venivano attribuite ad impacci della e nella maggioranza, al timore che una flessione mettesse in difficoltà i partiti ed in ispecie quelli minori, ma erano in realtà i segni di una crisi politica, di una difficoltà d'intesa, di un disperdersi di voti provenienti dalla paura e difficilmente recuperabili tutti in una situazione un po' normalizzata.
C'era insomma una situazione di malessere che De Gasperi declinante ed i suoi successori non ancora affermati non riuscivano a bloccare. Dalla sinistra fu fatto efficacemente l'ostruzionismo e poi una forte campagna contro la legge truffa, cui la D.C. rispose con scarso vigore. Il risultato fu deludente (una batosta politica), colpì fortemente De Gasperi del resto declinante sul piano fisico, favorì un avvicendamento di generazioni con Fanfani, ma non poté soprattutto evitare il logoramento della formula politica, i rapporti non più fiduciosi e costruttivi, tra i Partners della coalizione centrista, che dopo una sosta non certo fortificante, continuarono con diversi leaders, ma sempre più stancamente, sempre più di malavoglia, con sempre maggiori disunioni e mancanza di obiettivi veramente comuni.
Insomma la formula, nata dalla improvvisazione del '48 ed a lungo sopravvissuta a se stessa, non seppe dare da quel punto qualche cosa che politicamente andasse al di là dell'amministrazione. E' stato ed è un grosso problema italiano nel contesto internazionale che si era stabilito e si consolidava a dispetto della debolezza di alcuni anelli della catena. Un altro modo di reagire alla gravità della situazione che si delineava fu l'intravista possibilità di introduzione del sistema uninominale, patrocinata dall'On. Caronia con il rigore del suo legame alle vecchie tradizioni. Ma forse ebbe ispiratori o persone cui faceva nella sua limpidezza da battistrada. Ed è strano che di questa cosa si parli ora o di quando in quando anche fuori dal caso Caronia che ora ci occupa.
Ogni volta che c'è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla. Ma senza negare che in qualche caso (v. Francia) un sistema elettorale possa consentire di raggiungere certi obiettivi, in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte.